C. Ferrata: L’esperienza del paesaggio

Cover
Titel
L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi


Autor(en)
Ferrata, Claudio
Erschienen
Rom 2013: Carocci
Anzahl Seiten
104 S.
Preis
URL
Rezensiert für infoclio.ch und H-Soz-Kult von:
Bruno Vecchio

Claudio Ferrata appartiene alla famiglia di quegli studiosi che hanno per tempo (se non da sempre) affrontato i temi del paesaggio secondo le modalità proprie della geografia culturale: nel senso che ha costantemente considerato la materialità del nostro mondo tramite il filtro delle culture che attraverso esso accedono alla rappresentazione del mondo stesso. Le coordinate della formazione di Ferrata, presso l’Università di Ginevra, rendono ragione di questo aspetto della sua biografia intellettuale; e la pubblicazione, nel 2008, del volume La fabbricazione del paesaggio dei laghi rappresenta banco di prova convincente del suo talento in questo campo.

In questo nuovo lavoro, Ferrata mette alla prova le sue capacità didascaliche sul tema, sollecitato e insieme facilitato dalla sua esperienza didattica al Politecnico di Torino (ma immagino che non siano da trascurare in proposito neanche i suoi impegni in tale senso nel Canton Ticino).

Da questa sua obbligata attenzione alla dimensione formativa risulta confermato e favorito l’approccio al paesaggio cui abbiamo accennato all’inizio. Approccio che si traduce in una visione «a tutti gli azimut » del paesaggio stesso: nel senso che esso è bensì fenomeno eminentemente umano e culturale (Olinto Marinelli, in tempi di positivismo imperante, nel 1917, riusciva però ancora a scrivere che «un paese può resistere senza di noi, non un paesaggio»); e però è fenomeno che intrattiene legami spesso ferrei, sempre significativi, con la materialità. Fenomeno a proposito del quale dunque – specie qualora importanti destinatari siano, come in questo caso avviene, futuri progettisti di territorio – è d’obbligo rispondere a una domanda che possiamo formulare più o meno così: «la consapevolezza piena della complessità del paesaggio, una volta che l’abbiamo auspicabilmente acquisita, come può essere tradotta in atti di gestione materiale del territorio contemporaneo?».

A questa domanda Ferrata non risponde con ricette semplici e nette, quali sarebbero quelle che oggi molti sarebbero indotti a ricercare, in quanto antidoto consolatorio rispetto alla «compressione spazio-temporale» propria della condizione postmoderna (per usare la fortunata espressione con cui David Harvey ci ha familiarizzato dal 1990 in poi). Come ben mostra un’indubbia autorità in questo campo, Roberto Gambino – che ha firmato la presentazione del volume di Ferrata – i nodi problematici che la questione del paesaggio chiama oggi in causa non sopportano i tagli gordiani, e dunque Ferrata è ben lungi dal praticarli. Egli invece, al fine di guidare le azioni progettuali, ha cura in primo luogo di portare all’attenzione del lettore tali nodi problematici, mettendolo dunque in condizione di essere consapevole delle implicazioni di ogni scelta. E in secondo luogo, quando si tratta di tirare le fila della discussione, mantiene un atteggiamento aperto e non prescrittivo.

Ci sia lecito, per uscir dal generico, richiamare un’esemplificazione, portata da Ferrata, che ci è sembrata altamente emblematica di questo suo atteggiamento; vale a dire le sue considerazioni sulle pale eoliche, oggi vexata quaestio in moltissime località dove questi artifici sono progettati o già impiantati (cap. 12). Partendo dall’assunto che tali installazioni sono in genere guidate da considerazioni di sostenibilità ambientale, e che d’altra parte esse sono previste in spazi in genere già modificati dagli uomini, egli suggerisce una valutazione anche meramente paesaggistica, caso per caso, di esse; valutazione che presti cioè attenzione «alla conformazione topografica, ai declivi e alla linearità dei crinali, ai pattern adottati nella disposizione degli aerogeneratori e alla forma complessiva dell’intera centrale ». Tutto ciò in base all’icastica considerazione (mutuata da Simonnet, 2005) che tali impianti, «più che sfigurare il paesaggio, figurano l’ambiente» (p. 82).

Queste appena ricordate sono tra le considerazioni che Ferrata propone in specifiche parti del volumetto, quelle appunto dedicate a singole questioni paesaggistiche da considerare e dirimere. Ma direi che queste parti nell’opera siano minoritarie in termini quantitativi; anche se assolutamente essenziali, in quanto qualificano la volontà dell’autore di far gemmare direzioni operative dal densissimo humus di riflessioni presentato, nei capitoli sia precedenti che seguenti a quello appena citato. Quel che prevale è appunto tale humus; che è costituito attingendo – come è obbligo che sia dati i caratteri del concetto di paesaggio – oltre che al mainstream dei saperi geografici, a un ampio spettro di altri saperi, dall’antropologia alla storia all’architettura, dalla storia e critica della letteratura a quella delle arti figurative, dalla semiotica all’ecologia.

Per concludere, e in qualche guisa a mo’ di antidoto a un atteggiamento troppo laudativo sull’opera, che metterebbe in imbarazzo il recensore (e forse anche l’autore), sia lecito argomentare su un caso – sia pur secondario – in cui il nostro punto di vista diverge da quello di Ferrata. Si tratta del cap. 13, Paesaggi della finzione.

Scrive qui Ferrata che per lo più in passato «la creazione di paesaggio è stata il sottoprodotto del lavoro il quale, dopo aver originato il territorio, ne ha prodotto le forme paesaggistiche (…). Se però analizziamo la creazione dei paesaggi della postmodernità notiamo che il rapporto immagine/ lavoro appare rovesciato. L’immagine assume infatti un ruolo preponderante e precede il lavoro. Il problema non sta nell’uso delle immagini per produrre paesaggio (operazione che è stata alla base dell’allestimento di giardini ai quali ancor oggi riconosciamo grandi qualità estetiche e che è propria di qualsiasi progetto architettonico), ma piuttosto nel fatto che, in molti casi, queste immagini non hanno un senso né un significato riguardo alla storia, ai miti, ai bisogni e alle aspirazioni della collettività. Così, molti nuovi paesaggi appaiono come scheletri vuoti e, come nei migliori parchi a tema sono risultato di pura finzione» (p. 83).

A tal proposito mi sembra opinabile argomentare che le immagini prodotte da questi paesaggi postmoderni non abbiano «un senso né un significato riguardo ai miti, ai bisogni e alle aspirazioni della collettività». Si può sostenere sia che da queste entità sia assente lo sguardo storico; sia che i bisogni e le aspirazioni della collettività cui queste realizzazioni obbediscono siano non condivise né condivisibili da parte di chi coltiva un atteggiamento volto ad «abbellire la vita per mezzo di una grande ricchezza di idee» (A. von Humboldt; sono debitore di Franco Farinelli per la citazione); e dunque si può operare per una maggiore consapevolezza della sensibilità collettiva, che riduca il gradimento sociale di tali realizzazioni. Ma che le aspirazioni della collettività trovino al momento risposta in queste realizzazioni, mi sembra difficilmente contestabile, posto il numero dei visitatori di esse e almeno fino a che un cambiamento (affinamento?) del gusto non inneschi controtendenze (si veda in proposito il recente calo di visitatori nei centri commerciali USA, almeno quelli di vecchia generazione, evocato fra l’altro dal New Yorker dell’11 marzo 2014).

Zitierweise:
Bruno Vecchio: Rezension zu: Claudio Ferrata, L’esperienza del paesaggio. Vivere, comprendere e trasformare i luoghi, Roma, Carocci, 2013. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, Vol. 157, pagine 164-166.

Redaktion
Autor(en)
Beiträger
Zuerst veröffentlicht in

Archivio Storico Ticinese, Vol. 157, pagine 164-166.

Weitere Informationen
Klassifikation
Region(en)
Mehr zum Buch
Inhalte und Rezensionen
Verfügbarkeit